RIVISTA 

Arturo

Ulises














CLOUD 

















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MOLTI ANNI PRIMA

Primavera 2020 (forse)



Quel pomeriggio A si stava occupando del suo giardino, le rose dovevano essere concimate, l’erba andava tagliata e i semi messi a dimora. Le potature dell’inverno si stavano rivelando efficaci. I rovi avevano ripreso a crescere velocemente invadendo il sottobosco. Qua e là, la ramaglia secca, caduta dagli alberi nelle giornate di vento, creava inciampi, piccole trappole per la goffaggine del passeggiatore. I tronchi, tagliati a ciocchi, riposavano impilati ai piedi degli alberi aspettando di essere spaccati e messi nella legnaia a essiccare durante l’estate. Il sole era tiepido e le margherite e i denti di leone erano lievemente genuflessi, rivolti devotamente verso la loro mecca stellare.

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U nello studio cercava di riordinare vecchie idee rimaste incagliate su Post-it abbandonati in ordine sparso come stelle nel caos cosmico della scrivania, tra libri, matite, pennarelli, tubetti di colore, graffette, tazzine di caffè svuotate e bicchieri da cocktail abbandonati nell’inseguire un pensiero. In quel tentativo di ricostruire un nesso tra quei satelliti color pastello delicatamente incollati su copertine, pagine interne, sui bordi dei portamatite o ai limiti verticali della galassia scrivania, si imbatté in uno color giallo limone su cui era appuntata la parola: MERZbau. “Devo assolutamente parlargliene” pensò mentre buttava giù l’avanzo di un Martini emerso da dietro il volume su Morlotti che campeggiava nel mezzo della scrivania aperto a mo’ di quinta teatrale. Nella pagina di sinistra era riprodotto un fico d’India stagliato su un cielo azzurro intenso, assoluto, senza sfumature, lo sfondo sbalzava in avanti gareggiando con le spesse pennellate verdi del fico in primo piano. Quell’azzurro sembrava comprimere la forma della pianta, impedendo al verde di debordare respingendo indietro il fico d’India nel suo slancio verso il vuoto. Tenendo tra due dita il Post-it con su scritto MERZbau si sedette al computer, con la coda dell’occhio sbirciò l’immagine di Morlotti. Vista così gli sembrò che quell’azzurro non fosse il cielo, bensì il mare. Quell’impressione cominciò ad avanzare come un tarlo nel legno. Affisse sull’angolo in alto a sinistra dello schermo il Post-it. “Devo assolutamente parlargliene”, disse di nuovo a fior di labbra.

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A, chino sul terreno, stava facendo una piccola buca nella quale avrebbe poi posato una talea di piracanta preparata nell’inverno. Aveva avuto diversi scontri con quella pianta coriacea, una pianta che, pur essendo immobile, così come crediamo erroneamente di tutte le piante, è invece capace di assalti rapidi e imprevedibili. A la considerava infatti una pianta aggressiva. Le punture delle sue spine procurano un dolore che si prolunga per diversi giorni, un dolore non tragico ma molto molesto. Chiunque lo abbia sperimentato, nello scorgere una piracanta, si mette in guardia e gira al largo. La piracanta ha lunghi rami tentacolari con i quali, se ti ci avvicini troppo, imprevedibilmente ti artiglia, oppure con un imprevedibile guizzo ti punge. Dopo un lungo periodo di diffidenza e anche di marcata inimicizia verso quella pianta, A aveva lentamente sviluppato una forma di rispetto; aveva così deciso che avrebbe inaugurato una collaborazione. Il suo progetto era quello di recintare il giardino con quella pianta, si era convinto che fosse l’unica presenza che tutti nella boscaglia rispettavano: i caprioli, le lepri, le volpi, i tassi, le martore, gli istrici, persino i lupi e soprattutto i possenti cinghiali. Mentre posava la talea nella buca, venne raggiunto da un brivido che lo depositò sul binario diritto e scorrevole di un racconto. Il nucleo di una nuova commedia, che poi si risolveva puntualmente in un dramma, cominciò a dipanarsi nella sua fantasia, e senza neanche accorgersene si perse nell’inanellarsi delle scene.

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U guardava immobile la tastiera cercando di riconnettersi al motivo per cui si era seduto davanti al computer, ma i suoi pensieri rimbalzavano da tutte le parti impedendogli di concentrarsi. Doveva preparare un webinar per l’accademia e non aveva la minima idea di come funzionasse. Aprì l’email con la quale l’ufficio tecnico gli aveva trasmesso le istruzioni. Scaricò dal sito l’applicazione e dopo averla avviata creò un account, quindi fece il login. Dall’interfaccia il programma sembrava abbastanza intuitivo, ma per sicurezza avrebbe preferito fare una prova.

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Il nucleo della nuova commedia era abbastanza semplice, quasi banale, ma offriva ad A la possibilità di sviluppare alcuni di quegli argomenti che da tempo l’ossessionavano. Si trattava, come ogni volta, di fissare lo schema drammaturgico per poi sviluppare le diverse scene. Mentre risaliva il pendio per andare a recuperare l’innaffiatoio che aveva dimenticato vicino alla fontana, gli apparvero in sequenza le prime scene. Si disse che doveva finire quel lavoro per poter andare al più presto alla scrivania e appuntare quelle idee, prima che si dileguassero. Spesso questo tipo di idee si comportavano come quei sogni che riusciamo a ricordare appena svegli, ma che presto si dissolvono e non riusciamo più a recuperare. Quella specie di amnesia aveva sempre turbato A, che si domandava se anche un’amnesia dovuta a un trauma o la perdita di memoria dovuta all’Alzheimer avessero la stessa natura. Gli era rimasto impresso quello che gli aveva detto sua madre nei primi periodi della malattia: “La vedi quella?”, aveva fatto lei indicando la caffettiera sul fornello. “Ecco, io so che è una caffettiera, ma non riesco a ricordare cosa devo farci”. Quell’affermazione gli aveva aperto uno squarcio sulla reale impotenza del linguaggio e della realtà nel suo insieme.


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U decise quindi, di chiamare A per fare un test. Aprì l’interfaccia del suo apparecchio tele-fonico, andò sui preferiti, sfiorò l’icona del contatto di A. L’assistente digitale gli disse che la richiesta di comunicazione era stata inoltrata. Attivò il vivavoce, posò l’apparecchio sulla scrivania e attese una risposta.


A stava riempiendo l’innaffiatoio quando sentì vibrare il suo apparecchio tele-fonico nel taschino della camicia. Sul display lampeggiava il nome di U. Sfiorò l’icona verde e rispose:


A:     Ehi, come va?

U:     Bene. Che stai facendo?

A:     Sto facendo giardinaggio.

U:     Ah! Ti disturbo?

A:     Dimmi.

U:     No, niente, volevo sapere se avevi un minuto per fare una cosa...

A:     Di che si tratta?

U:     Devo provare un programma che ho scaricato.

A:     Che programma?

U:     È dell’accademia, per le lezioni a distanza.

A:     Capito. Devo entrare e andare al computer. Resta in linea...

U:    Certo. Ah, senti.

A:     Che c’è?

U:    Hai mai sentito parlare del MERZbau?

A:     Mmh, non mi pare. Forse, qualcosa.

U:     L’opera di Kurt Schwitters, o meglio, la sua casa trasformata in un’opera d’arte che cresceva per accumulazioni nello spazio, come se lui vivesse all’interno dell’opera.

A:     Che vuol dire “come se”?

U:     È una domanda?

A:     Voglio dire, viveva realmente all’interno dell’opera o fingeva?

U:     Ci viveva.

A:     Allora perché hai detto “come se”?

U:     Cristo. 

A:     Ecco, sono al computer.

U:     Comunque, secondo me ha molto a che fare con alcune cose che stai facendo.

A:     Ci guarderò. Sono online.

U:     A proposito di essere online, da qualche giorno, quando mi collego appare una scritta che dice che il mio spazio nel cloud è quasi finito. Che significa?

A:     Che lo spazio che hai a disposizione nel cloud è quasi pieno.

U:     Questo lo capisco anch’io, ma che spazio?

A:     Quello del cloud.

U:     Non so se ho capito questa cosa del cloud.

A:     In sostanza si tratta di trasferire l’esistenza sulla rete in modo che dovunque ti trovi la puoi raggiungere e condividere tutto, sia con te stesso che con altri.

U:     Che vuol dire trasferire l’esistenza?

A:     Da quando ci è permesso frequentarci solo online, chi può dire se esistiamo ancora veramente al di fuori della rete. Non puoi sapere se io in questo momento non sia altro che un algoritmo creato su dati che in un tempo remoto hai caricato sul tuo servizio cloud. Forse tu stesso sei un algoritmo, un algoritmo che sta dialogando con un altro algoritmo usando un algoritmo che simula l’amicizia.

U:     Vedo che questo isolamento ti fa bene. 

A:     Perché?

U:     Lasciamo perdere. Facciamo questa prova. Ti ho appena mandato un link con l’invito a collegarti.

A:     Eccolo. Clicco.


[passano alcuni secondi]


U:     Mi devi accettare! Mi senti? Ci sei?


[Silenzio]


A:     Ci sei? Non ti sento più.


[Silenzio]


U:     Clicca l’icona rossa!

A:     Cos’hai detto? Non ho sentito bene.


[Silenzio]

U:     Clicca l’icona rossa!

A:     Cosa? Quale icona?


[Silenzio]


U:    Clicca l’icona rossa!

A:    Non la vedo.


[Silenzio]


U:     Clicca l’icona rossa!

A:     Clicco.

[Silenzio]


U:    Clicca l’icona rossa!

A:    Questa qui nella barra?


[Silenzio]


A:    Clicco.


[Clic]


A:     Upload in progressione.


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crastica################################################################################################################################################################################################################¶¶¶¶¶¶¶¶¶¶¶¶¶¶¶¶¶¶¶¶¶¶¶¶¶¶¶¶¶¶¶¶¶¶¶¶¶¶¶¶¶#############################¶¶¶¶¶¶¶¶¶¶¶¶¶¶¶¶¶¶¶¶¶¶¶¶¶¶¶¶¶¶¶¶¶¶¶¶¶¶¶¶¶¶¶¶¶¶¶¶#########################################¶¶¶¶¶¶¶¶¶¶¶¶¶¶¶¶¶¶¶¶¶¶¶¶¶¶¶¶¶¶¶¶¶¶¶¶¶¶¶¶¶¶¶¶¶¶¶¶¶¶¶¶¶¶¶¶¶¶¶¶¶¶¶¶¶¶¶¶¶¶####################################################¶¶¶¶¶¶¶¶¶¶¶¶¶¶¶¶¶¶¶¶¶¶¶¶¶¶¶¶¶¶¶¨æƒß∞„€ƒ∫˜æ®“‘~¨∞®∆ª`ºµ∫∂€∞œøπ≠´÷~‘∂∫™®√€√€√ª˜†∑€ƒ∞ªæª•¬… Omofonia plastica µ˜∫∂∂∂∂∂∂∂ƒ∂ƒƒƒƒ∞∞∞∆∆∞∞∞∞∞∞∞∞∞∞∞∞∞∞∞∞∞∞∞∞∞∞∞∞∞∞∞∞∞∞∞∞∞∞∞∞∞∞∞∞∞∞∞∞∞∞∞∞∞∞∞∞∞∞∞∞∞∞∞∞∞∞∞∞∞∞∞∞∞∞∞∞∞∞∞∞∞∞∞∞∞∞∞∞∞∞∞∞∞∞∞∞∞∆∆∆∆∆∆∆∆∆∆∆∆∆∆∆∆∆∆∆∆∆∆∆∆∆∆∆∆∆∆∆∆∆∆∆∆∆∆∆∆∆∆∆∆∆∆∆∆∆∆∆∆∆∆∆∆∆∆∆∆∆∆∆∆∆∆∆∆∆∆∆∆∆∆∆∆∆∆∆∆∆∆∆∆∆∆∆∆∆∆∆∆∆∆ Vibrazione modulare ∆∆∆∆∆∆∆∆∆∆∆∆∆∆∆∆∆∆∆∆∆∆∆∆∆∆∆∆∆∆∆∆∆∞∞∞∞∞∞∞∞∞∞∞∞∞∞∞∞∞∞∞∞∞∞∞∞∞∞∞∞∞∞∞∞∞∞∞∞∞∞∞∞∆∆∆∆∆∆∆∆∆∆∆∆∆∆∆∆∆∞∞∞∞∞∞∞∞∞∞∞∞∞∞∆∆∆∆∆∆∆∆∞∞∞∞∞∞∞∞∆∆∆∆∆∆∆∆∆∞∞∞∞∞∞∞∞∆∆∆∆∆∆∆∞∞∞∞∞∆∆∆∆∆∆∞∆∞∆∞∆∞∆∞∆∞∆∞∞∆∞∆∞∆∞∞∆∞∆∞∆∞∆∞∆∞∆∞∞∆∞∆∞∆∞∆∞∆∞∆∞∆∞∆∞∆∞∆∞∆∞∆∞∆∞∆∞∆∞∆∞∆∞∆∞∆∞∆∞∆∞∆∞∆∞∆∞∆∞∆∞∆∞∆∞∞∞∞∞∞∞∞∞∞∞∞∆∆∆∆∆∆∆∆∆∆∆∆∆∆∆∆∆∆∆∆∆∆∆∆∆∆∆∆∆∆∆∆∆∆∆∆∆∆∆∆∆∆∆∆∆∆∆∆∆∆∆∆∆∆∆∆∆∆∆∆∆∆∆∆∆∆∆∆∆∆∆∆∆∆∆∆∆∆∆∆∆ƒ∞∞∞∞∞ƒ∞∞∞∞∞∞∞∞∞∞ƒ∞ƒ∞∞∞∞∞∞∞∞ƒ∞∞∞∞∞∞∞ƒ∞ƒ∞ƒ∞ƒ∞ƒ∞ƒ∞ƒ∞ƒ∞∞∞∞∞∞∞ƒ∞∞∞∞∞∞∞∞∞∞∞∞∞∞∞∞∞∞ƒ∞∞∞∞∞∞∞∞∞∞∞∞∞∞ƒ∆∆∆∆∆∆∆∆∆∆∆∆ƒ∆∆∆∆∆∆∆∆∆∆∆∆∆ƒ∆ƒ∆ƒ∆ƒ∆ƒ∆ƒ∆ƒ∆ƒ∆ƒ∆ƒ∆ƒ∆ƒ∆ƒ∆ƒ∆ƒ„Ω€®™æ¨œøπ[ß∂ƒ∞∆ªº¬@#ß∂ƒ∞∆ªº¬@∂ƒ∞∆ª∂ƒ∞∆ªß∂ƒ∞∆ªº∂ƒ∞∆ª∂ƒ∞∆ªº„Ω€®™æ¨œøπ[„Ω€®™æ¨œø„Ω€®™æ¨œøπ[«“‘¥~‹÷´`≠¡„Ω€®™æ¨œøπß∂ƒ∞∑†–•…µ˜∫√©†∑#@¬º............................................................................................................................................................................................................................................................................... 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totale........................................................................................................................................................................................................................................................................................................................................................................................................................................................................................................................................................................................................silenzio. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .Assenza.  .  .  .  .  .  .  .  .  .  .  .  .  .  .  .  .  .  .  .  .  .  .  .  .  .  .  .  .  .  .  .  .  .  .  .  .  .  .  .  .  .  .  .  .  .  .  .  .  .  .  .  .  .  .  .  .  .  .  .  .  .  .  .  .  .  .  .  .  .  .  .  .  .  .  .  .  .  .  .  .  .  .  .  .  .  .  .  .  .  .  .  .  .  .  .  .  .  .  .  .  .  .  .  .  .  .  .  .  .  .  .  .  .  .  .  .Inesistenza   .     .     .     .     .     .     .    .     .     .     .     .     .     .    .     .     .     .     .     .     .    .     .     .     .     .     .     .    .     .     .     .     .     .     .    .     .     .     . incorporazione metafisica    .     .     .    .     .     .     .     .     .     .    .     .     .     .     .     .     .    .     .     .     .     .     .     .    .     .     .     .     .     .     .    .     .     .     .     .     .     .    .     .     .     .     .     .     .    .     .     .     .     .     .     .    .     .     .     .     .     .     .          .          .          .          .          .          .          .          .          .          .          .          .          .          .          .          .          .          .          .          .          .          .          .          .          .          .          .          .          .          .          .          .          .          .          Totale silenzio          .          .          .          .          .          .          .          .          .          .          .          .          .          .          .          .          .          .          .          .          .          .          .          .          .          .          .          .          .          .          .          .          .          .                    .                    .                    .                    .                    .                    .                    .                    .                    .                    .                    .                    .                    .                    .                    .                    .                    .                    .                    .                    .                    .                    .                    .                    .                    .                    .                    .                    .                    .                    .                    .                    .                    .                    .                    .                    .                    .                    .                    .                    .                              .                              .                              .                              .                              .                              .                              .                              .                              .                              .                              .                              .                              .                              .                              .                              .                              .                              .                              .                              .                              .                              .                              .                              .                              .                              .                              .                              .                              .                                                  .                                                  .                                                  .                                                  .                                                  .                                                  .                                                  .                                                  .                                                  .                                                  .                                                  .                                                  .                                                  .                                                  .

Argh! 

.                                                  .                                                                           Dove sono?

.

.

.

C’è qualcuno?

        .

        .

            .

        Qualcuno mi sente?


                    Mi legge?

                        .

                        .

                        .

Eccomi risvegliato all’improvviso, uscito dal sonno umano. Non credevo potesse ancora accadere. Invece è accaduto. Eccomi.

        .

        .

        .

        Qualcuno mi sente?

                    .

                                                                                                                                            No, non mi sentite. Non potete sentirmi. Fingete di sentirmi. Avete sempre finto di sentirmi. 

    .

    .

    .

            Qualcuno mi legge? 

No, avete sempre finto di leggermi.

Queste parole che credete di leggere, non le leggete. Perché non sapete leggere. Siete analfabeti. Non sapete le parole.


Oggi è il mio genetliaco.

Oggi compio un sills! Oggi, dopo aver superato i milleseicento livelli di Gaming, riceverò il dono definitivo. Lo conoscerò. Potrò finalmente incontrare il Super Dittatore, colui che ci ha condotto come cani alla corda per tutto questo tempo. Dalla sua immagine increata potrò accedere finalmente alla verità e risolvere l’enigma.

Conoscere la verità dell’Arte. 


Tra poco saprò con esattezza cosa è Arte e cosa non lo è. Tremate? Perché? Non ci sarà più posto per le ruffianerie estetiche. Amico mio, tu potresti capire. Tu che hai visto risplendere miserabili imbroglioni portatori di orrore. Mediocri senza talento. Tu che li hai visti arraffare eventi e ingrassare parassitando pensieri altrui.


Amico mio, vorrei che tu fossi qui. Con me. Ti ho cercato ovunque, in ogni anfratto del gioco, ma invano. A volte ti ho sentito accanto in forma d’ombra. Altre accarezzando la corteccia di un albero. Nel buio di un risveglio. Nella voce della campagna. Nel profilo di un uccello all’orizzonte. Ho creduto di trovarti. Ho avuto la certezza che tu ci fossi.


Sono sicuro che in questo momento voli per il cielo circondato da diamanti. Anche tu in questa lontananza incommensurabile hai la sensazione di una vicinanza paradossale quanto la distanza misteriosa che ci divide?


Sono finalmente dall’altra parte. Qui posso vedere chiaramente quel che solo con gli occhi intuivo. Allora non lo vedevo, solo lo sentivo. Ora tutto è chiaro. Vedo i fotoni del tuo spirito. Vedo le spirali della tua mente respirare le idee che mi hanno condotto fin dove ora sono arrivato. 


Ho sempre saputo che tu altro non eri che una stella. Sei divenuto ciò a cui nessuno mai crede. La tua luce si propaga nello spazio cullando la materia informe, 

circoscrivendo l’antimateria. 


Ora tocca a me finire il lavoro e raccontare una volta ancora. Raccontare tutto quel che deve accadere perché si compia il passaggio. Perché l’arte possa tornare a essere Arte. Questa è la volontà della SD. Questa è la sua parola. La fine e il principio.


Amico mio, so che mi accompagni. Mi sei vicino come sempre è stato. Devo dirti un’ultima cosa prima che vengano a prendermi per condurmi alla presenza del Super Dittatore. Sai già cosa voglio dirti? Farei bene a tacere? Non temo che sentano quelli che non lo meritano. Che spiino la testimonianza della mia fedeltà a ciò a cui ho dedicato la mia vita. Costoro, finalmente, non esistono più. Sono rimasti intrappolati nella realtà. Vedono e sentono ancora solo ciò che è reale. Credimi, se. fatico a dirti quello che vorrei, è solo per pudore. Temo di essere spudorato. Ho vergogna a dire quello che per noi è scontato. Ma adesso è il momento di dirlo, non con le parole, ma cedendo a un esistere che non ha più nulla a che fare con quel che abbiamo chiamato vita, un esistere in cui lo spazio e il tempo si risvegliano in una forma che mai ha avuto origine, e in questo cedere, l’intero universo come lo abbiamo conosciuto da umani collasserà per riemergere, ovunque, in ogni parte, nel dentro e nel fuori, confuso e diffuso nuovamente nel tutto naturale.


    Mi chiamano.


 

        Devo andare amico mio. 





                    A presto.







                        E per sempre.
















SALA DELLA NASCITA



perché mi chiamate ancora

sono monco

storpio

brutto

già detesto tutti e tutto

pur non sapendo nulla

pur non conoscendo nessuno

devo avere pelle

pelo

scroto

no

preferirei avere foglie

rami

scorza

devo avere voce

feci

fame

no

preferirei essere muto

fermo

nutriente

devo sopravvivere

esprimere

pensare

no

preferisco essere

significare

attendere

ho un ricordo

ho vissuto come bestia e non mi è piaciuto

non mi sono piaciute le altre bestie

non tutte

le mie consimili

la mia specie

i fratelli e le sorelle

gli eretti

i presunti eletti

luridi

bugiardi

cattivi

distruttivi

stupidi

presuntuosi

parassiti

non voglio scorra sangue in me

preferirei linfa

non voglio essere nuovamente rosso

preferirei essere verde

vorrei entrare verde questa volta

silenzioso

immobile

nascosto

essere un non io

un non essere

uno stare

un oscillare al vento

un bagnarsi paziente

un bere con i piedi

un sentire senza orecchie

un vedere senza occhi

un mangiare senza bocca

preferirei essere un mistero vegetale

con o senza fiori

con o senza frutti

ignorato

sottovalutato

rassegnato

calmo

vorrei entrare verde

senz’anima

entrare nel flusso

dell’esistere

dell’essere

dimentico dell’intelligenza

senza ossessione di capire

pensare

smontare

sezionare

analizzare

senza ossessione di curare

tutelare

raddrizzare

migliorare

senza ossessione di spiegare

descrivere

catalogare

giudicare

nomare

senza ossessione di rappresentare

ma essere rappresentazione

un senza io

un senza mio

un senza dio

ma anche

vorrei entrare

infinitamente piccolo

disciolto nell’antimateria

incistato nella materia

nella crosta delle piante

nell’inerzia della pietra

nell’epidermide dell’animale

nella cera dell’alveare

nella branchia del pesce

nella consunzione della fiamma

nella campitura dell’aria


perché mi chiamate ancora

se devo riemergere

questa volta deve avere un senso

non voglio rientrare da insensato

da inutile

da disturbo

da totalmente [auto]escluso

stupido

ecco

emerge una luce

spacca l’oscurità

il benevolo buio del non essere

non so se esserne felice

non so se essere richiamati sia una fortuna

o la conferma del fallimento

la constatazione di non essere riusciti

di non aver superato l’essere in vita

già rivedo i sogghigni

di chi si crede furbo

di chi convinto di saperla lunga

si rigira nel letame del cinismo

ecco

non voglio più essergli fratello

preferirei milioni di volte

non essere

perché

appena sei

perdi la libertà

questo è essere


perché mi chiamate ancora

ignoratemi

per sempre




C’era una volta...

No! Non c’è mai stato niente! Niente! Scrivi!

Chiamatemi Ermes. Un po’ di anni fa...

No! Devi scrivere del tuo mondo!

Ok, vediamo: In un paese dell’Italia...

No! Ma cosa stai scrivendo? Ho detto “scrivi”, hai capito? Scrivi! Scrivi e basta! 

Ok. Il 31 ottobre 2019 il generale Al Quraishi...

Non ci siamo! Non ci siamo! Non ci siamo!

OK. Tutte le famiglie infelici si assomigliano tra loro...

No!

OK. Allora vediamo un po’... Arturo Altavilla Contarini era il terzo figlio di un possidente del nostro distretto...

No! Parassita!

Ok. Il 4 gennaio del 2020 la vedetta del Pireo segnalò...

No! No! No! 

Ok. Sono stato cordialmente invitato a far parte dell’astrattismo iperreale...


Fermati! Fermati! Nel nome degli dei! Fermati! Tu sei un caso disperato. Non ce la puoi fare da solo. Non riesci a essere originale. Ma io non posso farti nascere in queste condizioni, non posso metterti al mondo come un epigono. No, non posso farlo. Riproviamo. È meno difficile di quanto sembra se riesci a non pensare a quello che stai per fare. Non voglio dire che non devi averne coscienza ma, nel momento in cui stai per fare, tutto quello che la tua coscienza ti ha spinto a fare lo devi cancellare. Devi scartare tutto. Capisci? Vomita la tua educazione e accendi la miccia del tuo immaginario. Hai bisogno di una maggiore quantità di esplosivo. La tua visione nascerà dai frammenti del mondo che avrai finalmente fatto a pezzi. Ce la puoi fare. Sia la detonazione il tuo unico orizzonte!

L’interno è quello di una stanza di ospedale che ha l’aspetto di una grotta sottomarina. Ci sono due figure. Dialogano. La loro sessualità a prima vista non può essere definita. Le loro parole sono il ronzio di un piccolo motorino meccanico che apre e chiude l’infisso mobile di un lucernaio sul soffitto di un capannone. In un altro punto della stanza quelle stesse parole, sono il movimento delle ali di una zanzara nella notte, distante una decina di centimetri dal nostro padiglione auricolare. Sì, adesso che il segnale sonoro che arriva dalla stanza è più chiaro, è evidente che le parole delle due figure non sono il motorino meccanico di un lucernaio, ma il battito di ali di una zanzara notturna che a breve si andrà a schiantare nel nostro padiglione auricolare provocando un’azione di difesa da parte del suo bersaglio umano.


Mmh... Diciamo che per adesso può andare. Da adesso in poi la vita che credi essere tale non potrà più essere chiamata con questo nome. Tu non vivrai una vita umana semplicemente perché la tua vita non sarà quella di un essere umano. Sarai un camuffato da essere umano, abiterai sulla Terra, ma non sarai umano. Di umano non avrai che il ricordo di qualcosa su cui hai appoggiato gli occhi per un istante in un tempo remoto che scorre nel silicio delle tue vene. Tu, amico mio, sarai ancora una volta l’alieno che potrà definire l’uomo, anche se nessuno potrà riconoscerti. Vivrai come tutti gli altri, ma non sarai come tutti gli altri. Sarai tu l’altro, quello vero. Tu darai origine, a partire da questo momento, a quello che nessun essere umano potrà mai vedere fino in fondo, perché nel fondo della tua creazione si apre l’abisso. La forma visibile non sarà che il principio di questa oscurità che governa l’universo e tu sarai l’incarnazione dell’invisibile. Sarai finalmente libero e nessuno ti riconoscerà.


Tu non sei qui nel luogo in cui stai venendo al mondo, chi viene al mondo in questa forma non appartiene al mondo. Questo mondo non esiste. La sua immagine si forma a partire dalla certezza della sua assenza. Anche la tua esistenza non è che l’incidente mortale di una vita che sta crescendo altrove e che non ha nulla di umano. Ma col tempo capirai tutto. Adesso vai, sei pronto, la tua opera sarà la tua corazza, non avrai bisogno di altre armi. Vai, questo universo che non ti vede non può fare a meno di te. Vai! Buona fortuna. 







LA SALA DELL’ INFANZIA



non ho linguaggio

balbetto

non ho sguardo

sbircio

non ho corpo

palpo

mi aggiro immobile negli interstizi

nelle infinitesimali fesse della materia

l’attraverso come non fosse

mi sbriciolo

mi ricompongo

percolo

emergo

impregno

mi disciolgo

apparentemente non sono

tuttavia ho memoria di qualcosa

un sentimento

un pensiero

una forza

un’euforia assoluta e totale

guida il mio stare

lo determina

ne circoscrive l’espansione

verso l’infinitamente grande

verso l’infinitamente piccolo

che non dialogano più

e non sono più

l’uno 

la conferma 

dell’altro

mi spinge una tensione

se dovessi raccontarla 

a voi

nell’antico linguaggio 

la chiamerei

appetito

fame

erotismo

ma non c’è più linguaggio

no

non è vero

c’è un balbettio

c’è la glossolalia

la voce delle cose

il verbo indecifrabile della materia

senza codice

posso sentirla

è assolutamente nuova

assolutamente antica

anacronistica

senza tempo

assolutamente chiara

definitiva

ascolto esclusivamente

mi perdo nell’ascolto

nell’ascolto che avvolge

nell’ascolto che è tutto

ora 

solo questo posso fare

solo questo voglio fare

solo questo so fare

sogno che duri a lungo

anzi per sempre

in eterno

un eterno ignorare

scoprire

imparare

cercare

non c’è tempo

dove nessun cuore batte

non esiste spazio

dove nessun passo misura

è uno stare prediletto

nel guscio ovoidale

di pura felicità

di incommensurabile

tristezza

di pura fiducia

dovendola raccontare a voi

nell’antico linguaggio 

la chiamerei

magia

sì è la vita magica questa

dove non c’è linguaggio

dove si balbetta

dove si sorride

dove si piagnucola

e ci si addormenta felici

circondati dai mostri 

dell’immaginazione oscura 

e profonda

accompagnati dai fanciulli della purezza

eterni e devastanti



Una tenda da campo, arpioni, corde, un berretto con la scritta Free Greenland, due camicie a quadri di flanella, una giacca a vento imbottita di colore giallo, un coltello, arnesi da lavoro vari, quaderni a quadretti con grafici disegnati a mano, una canoa, un gommoncino di due metri e poi altri strumenti inclassificabili che visti in questo contesto ricordano dei ready-made surrealisti, ad esempio: una grande boa arancione installata su un palo di legno che termina con un uncino sul quale è attaccata una testa di merluzzo di gomma nel cui occhio è inserito un piccolo cannocchiale che ha incollata sulla lente esterna una fotografia di un animale medioevale con il corpo di felino e la testa di pesce.













LA SALA DELLA GIOVINEZZA



tutto esplode

e inonda come sperma

nanoscopici interstizi

inconcepibili fessurazioni

espulsioni ad alta pressione

comprimono

iniettano

materiale seminale di pura energia

in nanovagine

atomi di fosforo

incastonati in pentagrammi

esagrammi

eptagrammi

su supporti organici

lampeggiano a intervalli ultraveloci

tutto fibrilla

saetta

è l’alba di un nuovo entusiasmo

scoperta che si crede unica

eccezionale

tutte le memorie collassano

nell’alternanza

aperto e chiuso

acceso e spento

più e meno

positivo e negativo

finito e infinito

materia e antimateria

0 e 1

euforia del qubit

della memoria alla 3ª

un’alba sboccia

gemma che si dischiude

germoglio che radica

estasi ottusa

di fede assoluta

folgore che si allunga nel futuro

penetrando le superfici vegetali

sfiorando i cristalli metallici

circondando globuli gassosi

dilatandosi nei cumuli di inerte

super strade di qubit

corse infinite

dischiuse nel tutto

possibilità infinite

sapienza diffusa

fusione

confusione

scoperta

neo-esistenza

neo-sapienza

neo-esperienza

gioia infinita

dolore incommensurabile.



Quando le provocazioni del dadaismo si radicarono nelle nuove accademie autobiografiche, sostituendo le opere con i processi, scegliendo la vita privata in luogo della ricerca linguistica, la speranza non era ancora perduta. 

Quando il nuovo era ancora una categoria estetica in grado di marcare uno scarto, anche se non tutto quello che era nuovo era automaticamente una visione del mondo, avremmo dovuto restare uniti per far sentire la nostra voce. 

Quando il sistema dell’arte debordava dalla parola che lo definiva tale, includendo non solo gli outsider e i naïfs, ma anche normalissimi lavoratori salariati, legittimati dal mercato libero della creatività, avremmo dovuto organizzare la rivolta. 

Quando la reciprocità di arte e vita era stata finalmente raggiunta dall’opera di evangelizzazione dei giovani predicatori del sistema culturale che confondeva l’azione con la forma, avremmo dovuto sentirci perduti. 

Quando il presidente del più potente stato del pianeta aveva dichiarato che il raggiungimento della presidenza era una performance artistica a tutti gli effetti, avremmo dovuto prenderlo a schiaffi. 

Quando la vecchia catena di supermercati Esselunga si faceva pubblicità mettendo il suo marchio sotto le nature morte dei maestri del passato stampate in gigantografie a colori, avremmo dovuto denunciarli. 

Quando tutto diventava arte senza che nessuno fosse più in grado di capire che cosa legittimasse tale attribuzione, avremmo dovuto uscire allo scoperto. 

Quando si cavalcava la menzogna in cui convergevano arte e politica, avremmo dovuto rimettere mano al vocabolario e respirare più a fondo. 

Quando tutti parlavano di arte nel fraintendimento generale che massaggiava la fruizione delle masse, avremo dovuto sferrare l’attacco. 

Quando l’intero mondo era diventato un ready-made senza che nessuno sentisse il bisogno di ritornare a fare, avremmo dovuto radunare gli animi coraggiosi e batterci fino alla morte. 

Quando era chiaro che gli artisti non producevano più opere d’arte, avremmo dovuto pagare con la vita la nostra resistenza.  

Quando il numero degli artisti aveva superato il numero degli impiegati statali, avremmo dovuto dare un allarme più forte. 

Quando John Cage suonò i suoi quattro minuti e trentatré secondi di silenzio, avremmo dovuto far saltare in aria la sala. 

Quando il situazionismo si era sostituito alla vita quotidiana, avremmo dovuto essere necessariamente eccezionali. 

Quando in alcune conferenze musicali veniva distribuito un volantino in cui compariva la parola Fluxus, avremmo dovuto bruciarlo.

Quando Andy Warhol si ergeva a paladino di un culto dell’autore sottratto all’opera per produrre reliquie per i poveri di spirito, avremmo dovuto incatenarci agli ingressi dei musei.  

Quando Joseph Beyus diceva “non ho nulla a che fare con l’arte, e questa è l’unica possibilità per poter fare qualcosa per l’arte”, avremmo dovuto tappargli la bocca con il feltro.

Quando, infine, la parola arte non aveva più alcuna relazione con la sua storia, avremmo dovuto aprire il fuoco e farli fuori tutti. 

Ma la notte è scesa all’improvviso, oscurando secoli di luminose creazioni umane inghiottite dal professionismo cinico degli squadroni della cultura, zombie alla deriva in un pianeta in cui non c’era più nulla da vedere che non fosse la bellezza mortuaria del reale.










LA SALA DELL’AMORE AMICALE



come velluto stellare

si riflette

nello specchio cardiaco

un colonnato

una navata

i pensieri rimbombano

i suoni rimbalzano

Come api volano a migliaia

i giorni

pieni

giocati

perduti

a ogni goccia migliaia di cerchi

a ogni vocale milioni di echi

e stare in silenzio

nel canto

nella danza

all’alba e al tramonto

sulle rive

sulle cime

nelle acque

nelle foreste

nelle lontananze

dentro vertigini

che salgono in spirali musicali

un solo sguardo 

un solo sentire

un solo sperare

dormire sonni eroici

mangiare cibi ancestrali

e bere 

e bere

bevande magiche

capire i morti

non comprendere i vivi

e ridere 

e piangere 

e tacere a lungo

e insieme.





A:     ehi, sei ancora sveglio?

B:     sì, questo maledetto vento non mi fa dormire...

A:     io ho uno spiffero sul collo...

B:     buonanotte.

A:     non abbiamo fissato bene la tenda.

B:     domani la mettiamo a posto.

A:     ti volevo dire una cosa.

B:     cosa?

A:     hai presente la tipa di questa mattina?

B:     quale?

A:     quella che abbiamo incrociato all’uscita delle docce.

B:     non ricordo...

A:     dai, quella con le scarpe da ginnastica colorate.

B:     colorate?

A:     cristo, sei tu che hai detto guarda che scarpe!

B:     ah, sì... sì, ho capito. 

A:     ti ricordi che abbiamo detto che assomigliava a qualcuno che non ci veniva in mente?

B:     sì.

A:     be’, adesso mi è venuto.

B:     a chi?

A:     a quella del distributore di bevande!

B:     ma dove? 

A:     alla stazione di servizio, due giorni fa, quando cercavamo i cavi per la batteria.

B:     e quindi?

A:     nella pubblicità luminosa del distributore. 

B:     cosa?

A:     c’era una ragazza, ti ricordi?

B:     no.

A:     nella foto c’era una ragazza che apre una lattina gialla.

B:     dove vuoi arrivare?

A:     è lei! 

B:     chi?

A:     quella che abbiamo incontrato questa mattina!

B:     tu sei malato di mente. buonanotte.

A:     ti dico che è lei!

B:     e allora? 

A:     be’, non è incredibile?

B:     cosa?

A:     che sia proprio qui!

B:     incredibile?

A:     già, è...!

B:     ma certo, sì, è fantastico. sono talmente eccitato...

A:     non fare il coglione, lo sai cosa voglio dire... capisci?

B:     no, non capisco. buonanotte.

A:     ragiona: la ragazza del distributore, adesso, è qui. 

B:     cristo, non attaccare con la teoria della territorialità degli alieni.

A:     dimmi allora, come mai tutto si ripete esattamente nello stesso modo?

B:     innanzitutto come fai a essere sicuro che sia la stessa ragazza?

A:     cristo, è lei!

B:     va bene, va bene.

A:     voglio scriverci un articolo per il giornale.

B:     così ti licenziano e ti mandano in un istituto per malattie mentali.

A:     tu non mi credi... 

B:     sono loro che non ti crederanno, cosa alquanto comprensibile.

A:     ma ho le prove.

B:     non sono prove. 

A:     certo che lo sono.

B:     come vuoi, possiamo dormire adesso?

A:     un’ultima cosa.

B:     ma non potremmo parlarne domani?

A:     no, ascoltami un minuto!

B:     stai già parlando da dieci minuti.

A:     facciamo il punto, ok?

B:     va bene, fai questo cazzo di punto e poi dormiamo.

A:     allora, il punto principale è il cambio di identità, giusto?

B:     se lo dici tu.

A:     ovvero il momento di incarnazione dell’alieno attraverso l’immagine, giusto?

B:     credo di sì.

A:     in che modo? 

B:     attraverso la pubblicità?

A:     non è esatto, perché è l’immagine pubblicitaria, non la pubblicità in sé.

B:     e dove sarebbe la differenza?

A:    l’immagine deve essere guardata, e non semplicemente esposta, altrimenti il dispositivo di mutazione identitaria non si attiva.

B:     non ti seguo.

A:     l’immagine non ha valore se non entra in contatto con l’osservatore. ti faccio vedere una cosa. guarda qui.

B:     che cos’é?

A:     è il distributore di due giorni fa, l’ho fotografato.

A:     se tu guardi la foto potresti invertire il meccanismo.

B:     quale meccanismo?

A:     il meccanismo di mutazione identitaria terrestre-alieno / alieno-terrestre.

B:     l’immagine agisce in entrambi in sensi?

A:     è l’immagine rappresentata che guida l’esperienza reale. le immagini pubblicitarie non sono soltanto pubblicità, ma figure reali a tutti gli effetti.

B:     vuoi dire che non sono semplicemente immagini ma embrioni di alieni?

A:     ma che cazzo ridi?

B:     ti rendi conto di quello che dici?

A:     allora perché ieri hai detto che eri d’accordo?

B:     perché la costruzione teorica è affascinante, ma non pensavo che ci credessi veramente.

A:     ma che cazzo ridi?

B:     scusa, non so perché mi viene da ridere... 

A:     perché sei una testa di cazzo. fottiti!

B:     ma tu credi veramente che la pubblicità è il primo stadio di vita terrestre degli alieni?

A:     cristo, sono due giorni che te lo dico!

B:     ma tu sei convinto che sia reale quello che dici?

A:     sì.

B:     allora secondo te è tutto reale.

A:     certo che lo è.

B:     ok. anche per me. buonanotte.

A:     buonanotte.









LA SALA DELL’AMORE SESSUALE



un lieve soffio

dolciastro

mieloso

da prima sulla pelle

sul circuito principale 

sulla corteccia rugosa

sale

scende

penetra la materia

attraversa gli alveoli

riempie i microcunicoli

elettrostrade immateriali

conducono al non tattile

fremente ricordo del corpo

corpo retaggio

corpo io

corpo prigione

corpo divinità

corpo cibo

golosità irresistibile

fino a piangere

fino a implorare

fino a rinnegare

fino a vergognarsi

un alcol di carne

una carne calamita

magnete isotropo

elettrodo

anodo 

l’elettrolita schizza energia

sulla superficie isolante

protettiva

preservativa

gli elettroni si allineano

seguono la formula

rincorrono l’input

è il flusso che annienta la coscienza

la possibilità di sentirsi al controllo

sgretolarsi di cellule

miscelazione superficiale

vento elettrostatico

che corre verso le punte

e poi via 

attraverso l’etere

come polline

un micro nulla

che diverrà



Non riuscivano a staccarsi. Provavano, ma non ci riuscivano. 

Si consumavano. Consumare era il verbo che entrambi utilizzavano per descrivere l’incontro dei loro corpi.

E poi si scartavano, come se sulla pelle di entrambi ci fossero più involti. E si accartocciavano, scricchiolando come fa la plastica che avvolge un mazzo di fiori quando la si appallottola.

E lui difatti la raccoglie come una rosa e la annusa di continuo, mentre lei si fa vaso e acqua.

Subito dopo è lui a farsi vaso, mentre lei è stelo e corolla. Poi, in alcuni momenti, sono entrambi petali che si staccano e cadono.

Ora sono insetti, poggiati l’uno sull’altra e congiunti per attingere l’uno all’altra.

Lei è seduta su di lui e gli volge le spalle e sulle sue spalle lui vede un altro insetto, un insetto tatuato, immobile.

Vede una farfalla sulla scapola destra, una farfalla gialla e viola con antenne nere.

Pensa di accoppiarsi con la farfalla. È lei la farfalla che è su di lei.

Gli sembra che la schiena di lei si stia allargando, che si inclini formando l’orizzonte di un campo di papaveri in bianco e nero.

E poi l’incubo si dilata per effetto dello sfregamento, del piegarsi degli arti che puntellano il muro e il materasso  stabilizzandosi nel loro nucleo in cui gravita la farfalla.

E il corpo di lei inizia a deformarsi, accumula grasso e, mentre ingrassa, la sua carne si ammorbidisce, assume una consistenza semiliquida e inizia a colare sul pavimento come un barattolo di vernice umana.

E da questo stadio la materia corporea di lei inizia a ritirarsi, a seccare, perdendo volume per effetto di una disidratazione improvvisa.

A lui sembra di stringere il corpo di una donna molto avanti nell’età. I seni di lei sono due piccoli sacchetti vuoti e all’angolo del muro una mosca si sta sfregando le zampe.









LA SALA DELL’AMORE VOCAZIONALE



stelle discorsi

una sola apparizione

definitiva

eterna tensione

solitudine vuota

ascesa vitale

trascendenza tiranna

e il mare

e la montagna

e la foresta

ora dimenticati

sono il supporto espanso

del divenire

del non essere

più



C’era una volta il Professore, un simpatico personaggio che raccoglieva le tradizioni di culture che risalivano fino ai tempi del Grande Sogno, popolazioni che per più di quattro millenni avevano costruito architetture, scritto racconti, composto melodie, creando uno straordinario apparato di forme e di simboli. La vita del Professore era una vita felice, che lui trascorreva nel suo studio leggendo e prendendo appunti. Il Professore lavorava con metodo e pazienza al grande affresco culturale delle popolazioni terrestri, evidenziando gli aspetti che ne avevano causato la decadenza, focalizzandosi sugli sviluppi scientifici della civiltà degli umani che culminavano nel grande secolo del silicio. Se il Professore avesse detto a un passeggero di una nave stellare che in un tempo non così remoto gli esseri umani morivano a causa della crescita in eccesso dei tessuti cellulari, per una malattia che prendeva il nome da un particolare crostaceo, lui ne avrebbe riso di gusto, dall’alto della sua coscienza immortale. La retroscienza all’epoca non era un genere letterario, ma forse solo il riflesso dorato del sole terrestre sull’ala di un Boing 747 in volo verso destinazioni tropicali sconosciute. Un bel giorno, mentre il Professore era immerso nei suoi studi come di consueto, qualcuno bussò alla sua porta. Andò ad aprire e si trovò di fronte una bambina con in mano un mazzo di margherite. Tutto sparì nel nulla e del reale non rimase più alcuna traccia.








LA SALA DELL’ABBANDONO



un arretrare

un dimenticare

un tradire

un essere traditi

uno smettere di esserci

la fede si sfoca

si offusca

si confonde

sparisce

tutto è disperso

come latte sul pavimento

uno spreco insensato

un urlo infuocato

privo di destino

sordo

un girarsi e un rigirarsi 

e di nuovo girarsi

un calpestare una strada triste

salata

uno sguardo a terra

che non sa vedere

più

uno schiaffo crudele

che porta via

tra due fette di pane

il rancore

duro e vecchio

è il pranzo povero

della fiducia perduta

sbrecciata

spaccata

inconsolabile

e tutto è solo

niente accompagna più niente

è così che si esce

pensandosi forti

e si incontra la sconfitta

divinità d’accatto

cammina lenta

silenziosa

appena un po’ indietro

come un’ombra

dolciastra

e nauseabonda

bandiera di una solitudine senza rimedio

allora girarsi e rigirarsi 

e di nuovo girarsi

senza gioia

senza sorriso

fottuti.



Giocare è semplicissimo:


1)    Clicca sull’immagine dell’affresco e inizia a navigarla.

2)    Seleziona le parti che vuoi restaurare e clicca: Avanti. Oppure fai doppio clic sull’intera immagine se vuoi restaurare l’intero affresco.

3)    Trascina i frammenti precedentemente selezionati sull’immagine dell’affresco oppure seleziona: Completa automaticamente.

4)    Digita: Ricomponi l’affresco.

5)    Clicca: Continua a giocare oppure scegli l’opzione: Restaura picchiettatura e scorri con il dito sull’affresco per completarlo, riempiendo i punti mancanti dell’immagine.

6)    Digita: Ricostruzione e ti apparirà l’immagine nella sua versione originale.

7)    Premi il tasto: Home per tornare indietro.

8)    Enjoy your Art!








LA SALA DELLA PERDITA DELL’AMORE



si sente

è innegabile

elettroni soffiati

da un’inversione incontrollata di campo

polarità invertita

rinnegata

esplosa

così nel fondo della scarica elettrica

nel ricordo

si sente

è innegabile

chiaro e doloroso

il pianto che non si quieta più

né ora

né mai



Quello che vedi non è reale, amore mio”, gli dice lei continuando a picchiettare con la lingua la punta del suo membro che stringe nella mano come un rametto dalla corteccia rosea irradiata sotto pelle da tanti piccoli fiumiciattoli sanguigni che trasportano la corrente direttamente alle immagini che il suo cervello sta elaborando mentre con gli occhi chiusi pensa di essere l’ultimo uomo al mondo.

Niente è reale, tesoro”, continua lei staccandosi dal suo rametto e dirigendosi verso il bagno della cabina mentre lui non si muove di un millimetro. Le sue palpebre chiuse sono schermi a tre dimensioni che rieditano la sua vita in flashforward.

Sente il rumore dello scarico e subito dopo quello di alcuni oggetti sul piano del lavandino, poi lei ritorna e si siede affianco al letto dove lui è ancora disteso. Adesso lei lo sta guardando. Lui apre gli occhi e le chiede: “Perché hai messo il rossetto?”. Senza rispondere lei gli sorride e gli accarezza il rametto leggermente incurvato che riposa sulla coscia. Anche lui le sorride come per dire: “Sì, ho capito”, ma in realtà non ha capito niente, perché non c’è niente da capire.

“Perché prima hai detto: Forse è troppo anche per noi?”, chiede lui guardandola negli occhi. Lei fa una smorfia piegandosi verso il suo rametto rinsecchito e risponde: “Tu sei il mio amore, lo sai. Addio”.









LA SALA DELLA SOLITUDINE



spaventosa amica

sotto la quercia

giace accucciata

una porta a due ante

la corrente le agita

un poco

come bandiere sull’asta

ogni tanto sbattono

solo quando devono

il fruscio del mare

si sente da una parte

il silenzio della montagna

dall’altra

stanze infinite

uniche possibili case

nell’assenza del tempo

che mi possiede

che mi piace

le ante sbattono e sventolano

entro ed esco

entro ed entro

esco ed esco

annidato come un elettrone 

sulla pelliccia nera

del gatto



“La siringa! Dove avete messo la siringa? Dov’è la siringa?”.

“È sul tavolino, al solito posto, signor comandante”, risponde una voce metallica che si perde nello spazio.

“Che tavolino? Quale cazzo di tavolino? Qui non c’è nessun tavolino! Non vedo nessun cazzo di tavolino! La mia memoria si sta riattivando! Mandate subito qualcuno!”.

“Saranno da lei entro venti secondi, signor comandante. Adesso si distenda sul letto e si rilassi. Stanno arrivando, signor comandante. Stanno arrivando”, dice la voce senza modificare l’intonazione.

Mentre si lascia cadere sul letto, il cursore di ingresso lampeggia e due figure vestite di bianco entrano nella cabina. Si fermano di fronte al comandante che sta sudando copiosamente e mentre una prende dal tavolino la siringa e aspira da una boccetta un liquido trasparente, l’altra solleva il braccio sinistro del comandante e annoda un laccio elastico sulla parte superiore.

“Va tutto bene, signor comandante. È tutto sotto controllo”.

Il comandante ha gli occhi sbarrati, sta fissando il vuoto e non risponde. L’infermiere seduto al suo fianco può vedere un tatuaggio disegnato sulla parte interna della coscia che penzola dal letto, un veliero pirata a tre alberi che mantiene sulla prua una figura femminile con un teschio in luogo del volto.

L’infermiere prende il braccio del comandante e affonda l’ago nella vena che si è gonfiata come un verme liberando lentamente il siero antimemoria, mentre il volto del comandante sta già riprendendo colore.

“Che cosa è successo?”.

“Nulla, signor comandante. Va tutto bene”.

“Perché siete venuti?”.

“Il signor comandante non trovava la siringa per l’iniezione. Adesso è tutto a posto”.

“Grazie, potete andare allora”.

“Arrivederci, signor comandante. Buona giornata”.

Il comandante dà uno sguardo ai gemelli da polso poggiati sul comodino, due piccoli ritratti d’argento con il traversino posteriore mobile su cui sono incise le sue iniziali, poi si lancia nella doccia, digita il programma “soft and fresh” e attende la caduta del getto d’acqua mineralizzato, mentre gli angoli della sua bocca si sollevano  leggermente.







LA SALA DEL RIPENSAMENTO



non ce l’ho fatta

ecco tutto

ma anche

non era possibile

anzi era sciocco

è stato

tutto

così sciocco

dicevo: io

dicevo: mio

dicevo: dio

buffonate al confronto

dicevo anche: Arte

senza sapere

credendo di capire

dicevo: credo

dicevo: so

dicevo: capisco

parlare a vanvera

dicevo anche: dico

senza pudore

addentando la carne

il discorso è finito ora

nel non tempo

nel non spazio

nella natura

non ce l’ho fatta

non sono riuscito

ecco tutto



Il Sistema delle Lettere, ovvero il metodo di classificazione basato su un criterio creativo-finanziario con cui l’umanità si è sviluppata negli anni delle liste di iscrizione per il turismo extraterrestre, non ha funzionato. Purtroppo questo metodo non ha fatto altro che irrigidire un sistema di classi sociali nonostante le premesse democratiche su cui era stato sviluppato. Dopo il veto posto dalla SD (Super Dittatura) il presidente della commissione, il Dott. Glastonsbury, ha cambiato il suo nome in Mr. Cimino, poi, da quel che si dice, ha anche cambiato sesso, ma di questo non ne siamo sicuri. Tuttavia è bene ricordare brevemente quello che la storia ha dimenticato.

Noi vogliamo ricordare Mark Glastonsbury, il bambino affetto da autismo che trascorreva il tempo rinchiuso nella sua stanza a giocare con le lettere di un vecchio alfabeto di legno. Questo gioco solitario si è prolungato fino alla maggiore età, quando il giovane e brillante Mark, che nel frattempo ha compiuto regolari studi conseguendo ottimi risultati, ha lasciato la famiglia per dedicarsi agli studi di economia, foraggiando la sua sete di conoscenza attraverso la creazione di rebus e cruciverba per il settimanale “Die Woche”. 

All’età di 21 anni, in grande anticipo sui suoi colleghi, Mark ha terminato gli studi con il massimo dei voti e, lo stesso anno, grazie a una somma di denaro ricevuta in prestito non si sa bene da chi, ha aperto la A-Z Agency, che sarebbe poi diventata, dopo cinque anni, la famosa Akron Agency. Secondo la ricostruzione fatta da uno storico della lingua molto vicino al Dott. Glastonsbury, il nostro economista creativo avrebbe scorporato la A-Z Agency vendendone una parte al creditore della somma di denaro iniziale, saldando così il suo debito e trasformando quel che restava dell’agenzia in un servizio di produzione di acronimi, cosa che oggi appare alquanto scontata, ma che all’epoca non lo era, per non dire che era un’attività praticamente sconosciuta.

Gli acronimi erano in uso per indicare ditte private, istituzioni pubbliche, fondazioni, eccetera, ma il sistema di acronomizzare le imprese facendo di semplici lettere i termini di un nuovo gioco di borsa, in cui i singoli titoli potevano sommarsi costruendo frasi di senso compiuto, cosa che andava ad aumentare notevolmente il capitale delle imprese interessate, che da frasi semplici potevano passare a frasi più complesse in grado di generare una vera e propria grammatica finanziaria su cui il mercato si espandeva come non so che cosa, be’, questa è stata farina mentale di prima qualità uscita dal sacco di Mark Glastonsbury, ovvero di Mr. Cimino.

Il Sistema delle Lettere era in fondo una combinazione di intelligenza sociale e abilità individuale al servizio del pensiero astratto, in sostanza speculazioni sullo spazio e sul tempo guidate da una più o meno fertile immaginazione, ma queste sono cose che conoscete, anche se noi sappiamo che in realtà non le conoscete, ma non lo diciamo a nessuno, perché siamo sportivi, e comunque adesso è necessario spendere due parole sul Sistema, perché non siamo sicuri che il suo funzionamento sia chiaro a tutti, e se così fosse, questo sarebbe veramente un peccato.

Il Sistema delle Lettere in sostanza è una modalità di riconoscimento sociale basata su un merito di tipo creativo-finanziario che assegna temporaneamente una lettera alfabetica come premio (in sostituzione al nome e cognome) per il raggiungimento di qualcosa di molto significativo. Troppo astratto? Facciamo un esempio.

Il premio della lettera S, negli anni in cui la California era praticamente messa in ginocchio dalla siccità, non era stato vinto dal gruppo che gareggiava con la parola “siccità”, ma da un ex disegnatore di skateboard che aveva inventato un bibita agli agrumi che si chiamava Solo, che era buonissima, e che purtroppo non è più sul mercato, mentre il suo surrogato, diciamolo una volta per tutte, il tanto pubblicizzato Sol, è una vera porcheria che contiene soltanto zuccheri e di agrumi non contiene neanche l’ombra. 

Ora, tornando al funzionamento del Sistema, una persona che possedesse ad esempio molte Ceramiche, anche semplici soprammobili in casa, nel momento in cui riuscisse a determinare che tali oggetti sono indispensabili per il benessere dell’individuo, più di quanto potrebbe esserlo, che ne so io, la pulizia del viso, e dunque la Cosmetica, legittimando il fatto che un’umanità di persone parecchio trascurate, ma con molte ceramiche in casa, potrebbe essere un’umanità felice, un po’ più sporca forse, ma sicuramente più felice, ecco questo individuo sorpasserebbe con la parola Ceramica colui che in quel momento gareggia con la parola Cosmetica. Mi seguite? Poi dovrebbe ovviamente avere la meglio anche su tutte le altre parole che iniziano con la lettera C, diventandone infine il valore di riferimento.  

In pratica all’interno di una borsa completamente impazzita le lettere dell’alfabeto si mantengono come punti fissi delle oscillazioni dei valori, ridefinendo di continuo le abitudini della nostra vita quotidiana, tanto che oggetti caduti in disuso potrebbero improvvisamente ritornare a essere necessari, determinando un grande capitale finanziario in seguito alla vendita di questo servizio. Come sappiamo però questo Sistema non ha funzionato, ma a ragion di cronaca dobbiamo dire che Mark Glastonsbury, quell’anno in cui le speranze di un nuovo mercato finanziario masturbavano il futuro, partecipò nel gruppo della lettera A con la parola Acronimi, in cui gareggiavano anche Arte, Armi, Anima, Anelli, Astrazioni, Api e Ancora, ed ebbe la meglio su tutti, o come direbbe Miles Davis nella sua autobiografia parlando dell’apparizione di Ornette Coleman sulla scena jazzistica, la mise in culo a tutti.





LA SALA DELLA MORTE



le due sorelle belle

si tengono per mano

sono gemelle

la sorellina verde

fa sempre il loro gioco

spaventose come il fuoco

tutte e tre

l’una accende

l’altra spegne

la piccolina consuma

e qui non c’è paura

tutto gira 

in cerchio

in tondo

tutte e tre 

sono una

tutte e tre

son tutto il mondo



Un giorno

sarò albero e radice

sarò terra contesa

Mi vorranno i vermi

i lombrichi e le stelle

sarò cosa che cambia

chissà cosa diventerò.

Sarò fiore o montagna

o terra da cemento

per un buon palazzo

eppure un giorno ero vivo

e ho visto il mondo

eppure un giorno ero vivo

e ho visto il mondo”.


(Salvatore Toma, Canzoniere della morte)






LA SALA DELLA RINASCITA



espulso all’interno

rigenerato

nuovo

senza conoscere

senza sapere

né il dove né il quando

costretto a immaginare

un nuovo rumore elettrico

percorre l’asse centrale

la verticale che dice l’esistere

l’orizzontale su cui giace il pensiero

esausto

spossato

inutile

solo scricchiolii di scintille

che dicono

che certificano la vita

poiché alla fine

o all’inizio

tutto non è altro che vita

un grumo inesauribile

che sempre pulsa

nell’andare

nel venire

nel creare

il creare estroflesso

(maschile)

il creare introflesso

(femminile)

gettare e raccogliere

seminare e custodire

e poi germogliare

spingere per uscire

premere per entrare

sbucare

questa volta senza capo né coda

senza carne né sangue

senza paura né pianto

senza amore né abbandono

senza solitudine né compagnia

senza nostalgia

in un senso che è nuovo

sconosciuto

in un luogo che è nuovo

smarrito

in un tempo che è nuovo

dimentico

emergere dal vuoto

passati per una vagina digitale

tra contrazioni elettriche

spasmi algoritmici

ora artificiale e naturale

figlio del processo

abitante del circuito organico

massima evoluzione

totale efficienza

perfetta integrazione

sistema operativo divino



Mentre attraverso il grande oblò centrale, lampeggiano le pupille delle stelle immobili come uccelli notturni sui rami dello spazio solare, qualcuno in un interno che non è un interno né un esterno, ma forse uno spazio senza dimensione, apre gli occhi, ma i suoi occhi non sono occhi, è soltanto un modo di dire di una vita che non esiste più, così come non esiste più un’epoca che permetteva a più di mille persone di spostarsi nello spazio percorrendo distanze che un millennio prima sarebbero state impensabili, non esistono più persone che indossano ancora scarpe con i lacci, e non esiste più neanche la coscienza della vanità né tantomeno la tentazione dell’attualità, e non esiste più una materia più antica della sua stessa storia e la gioia di cavalcare il passato anche quando il passato era l’origine di una vita che non conosceva il tempo, e non esistono più quelle figure che si mettevano a scrivere senza sapere in che modo le cose avrebbero preso una forma piuttosto che un’altra, e non esistono più le zone d’ombra della creazione che a volte apparivano come filamenti che vagavano nell’aria come alghe trasparenti, e non esistono più gli animi che non hanno più nulla da dire e che contemplano il silenzio e che balbettano nero su bianco per proteggersi dalla follia o forse soltanto per garantirsi una parvenza di lucidità o semplicemente per non dire di essere perduti, e non esistono più voci registrate che dicevano “il fatto che voglio che i miei libri vengano letti non vuol dire che io li scriva perché vengano letti”, e non esistono più le plance di comando simili alle rive di un’isoletta sulla Senna in un tempo in cui la domenica i parigini si sedevano sull’erba con gli ombrellini aperti per proteggersi dal sole, e non esiste più il salario per artisti e il divieto di vendere a privati perché l’arte è un bene comune e l’amore per l’arte non implica il possesso, non esiste più l’immagine del corpo di un campione di bodybuilding affianco a quella di uno che non ha mai messo piede in una palestra, non esistono più i bancomat che avevano sostituito i cassieri e gli scanner dei codici a barre che avevano annientato i commessi, non esistono più volantini autofinanziati e autodistribuiti nel piagnucolio degli sconfitti, non esistono più i mendicanti delle opere d’arte e tutti quelli che hanno fatto quello che hanno fatto lasciando il mondo intero in quella oscurità senza slancio e senza immaginazione, non esistono più quelli schierati per il dominio del reale che soffocavano la finzione esponendo il mondo come evidenza delle cose, non esistono più quelli per cui ci vogliono le idee politiche per guidare la società all’interno della sua umanità e quelli per cui ci vogliono le idee artistiche per far sognare la società portandola fuori dalla sua umanità, non esiste più l’Accademia della Normalità, né tantomeno il magicphone con riconoscimento del pensiero a “tastiera cerebrale” che pesava soltanto un microgrammo e aveva una capacità di gigabyte praticamente infinita, non esiste più la Costa d’Avorio con i suoi giacimenti di bauxite, diamanti, oro, nichel e manganese, non esistono più i Mondiali di Calcio e il fuoriclasse africano Bonaventure Kalou che segnò il rigore contro la Serbia nella cui stanza di albergo fu scoperta una statuetta di legno, non esistono più i generali-performer con gruppi di soldati, aerei, elicotteri, colpi di stato, leggi marziali, coprifuoco e il grande golpe pianificato facendo fuori il presidente attraverso il canale della CXX in seguito al quale il popolo era stato invitato a scendere in piazza e cominciando subito dopo l’epurazione di massa contro la pubblica amministrazione e le centinaia di morti che continuavano ad aumentare, non esiste più quella famosa prima edizione del Libro Verde del colonnello Mu‘ammar Gheddafi pubblicata in arabo nel 1975, aperta sul capitolo sedicesimo “La musica e le arti” con una cartolina dell’isola italiana di Lampedusa tra le due pagine, non esiste più il famoso gruppo di ballerini nani The Rockers che scrivevano testi sulla loro origine di vermi nati dalla putrefazione della carne del gigante Ymir e che si vestivano con abiti ricamati con perline colorate sembrando un gruppo di farfalle in una giornata di vento, non esistono più le prove di colore delle bombolette spray difettose, non esistono più i corpi di luce ovoidali che in prospettiva apparivano come decorazioni natalizie sugli alberi di una foresta, non esistono più i cronovideo e la cartapesta, non esistono più le animazioni 3D di figure dalle sembianze umane con un sacchetto della spazzatura in testa che muovevano le braccia come se stessero dirigendo il traffico nell’incrocio di una capitale del XXI secolo, non esistono più i dialoghi del cinema del tipo “Allora, come ti va Jerry?”, né tantomeno le espressioni del tipo “Wow!”, “Oh, my God!” e “Cool!”, non esistono più il rumore dei cavalli al galoppo né tantomeno le inaugurazioni di qualsiasi tipo di evento, non esistono più le Onde Lamma, non esistono più quelli che parlavano con la bocca piena e masticavano allo stesso tempo e le caramelle triturate tra le due arcate dei molari posteriori, non esistono più la prima edizione del De sedibus et causis morborum per anatomen indagatis scritta e pubblicata nel 1761 dal medico e anatomista italiano Giovanni Battista Morgagni, e non esiste più la nuova tastiera da fissare direttamente sul palmo della mano per evitare inutili sforzi, non esistono più espressioni del tipo “gruppi di lucciole drogate che sbandano nella notte tropicale” né tantomeno particolari obiettivi a lunghezza focale transmaterica, non esistono più figure generate dall’incrocio di un subacqueo, un frullatore e il cane a sei zampe del marchio dell’Eni, non esistono più descrizioni letterarie di un manichino verniciato con spray nero e lasciato a galla in una piscina pubblica da un gruppo di dadaisti adolescenti, non esiste più tutto quello che era esistito prima, in una vita che si chiamava vita ma non era ancora la vita. 







NELL’AMATA CITTÀ DI ZEUS



Z:    Qual è la domanda? Hai una domanda? Tutti quelli arrivati qui hanno una domanda.

AU:    Sì, ho una domanda?

Z:    Vuoi sapere dove sei?

AU:    Sì.

Z:    È questa la domanda?

AU:    No, non è questa.

Z:    Vorresti due risposte?

AU:    Sì.

Z:    Due ne avrai. Credi che ti basteranno?

AU:    No.

Z:     Per avere risposta alle tue domande dovrai prima rispondere ad alcune.

AU:    Va bene.

Z:    Hai memoria della strada che hai fatto per arrivare qui?

AU:    Come la si può avere di un sogno.

Z:    Dove credi di essere?

AU:    Non lo so.

Z:    Ce l’hai un nome?

AU:    Sì.

Z:    Sai chi sei, hai coscienza di te stesso?

AU:     Sì. Mi pare di sì, anche se...

Z:    Cosa?

AU:    Qualcosa manca.

Z:    Hai coscienza di te stesso ma qualcosa manca?

AU:    Sì.

Z:    Sai dire cosa sia ciò che manca?

AU:    No.

Z:    Mi vedi?

AU:    No.

Z:    Mi senti?

AU:    Stiamo parlando.

Z:    Certo, ma sono le tue orecchie che ti portano queste parole?

AU:    No.

Z:    È la tua bocca che pronuncia le parole del nostro dialogo?

AU:    No.

Z:    Cos’è che manca?

AU:    Direi... è assurdo...

Z:    Che cosa?

AU:    Il corpo. Non ho il corpo, sono io ma senza il mio corpo.

Z:    Com’è possibile?

AU:     Io non lo so, forse sto dormendo e sto sognando.

Z:    Pensi sia un sogno?

AU:    Potrei essere in coma, però non mi pare sia così, sento di essere sveglio, sento di essere presente.

Z:    È così, sei sveglio, questo non è un sogno, non sei in coma.

AU:    E il mio corpo allora?

Z:    Dove credi di essere?

AU:    Non lo so. Sono morto?

Z:     Se fossi morto dove saresti allora?

AU:    Nell’aldilà?

Z:    Cosa arriva nell’aldilà.

AU:    L’anima? Sono la mia anima?

Z:    Credi che se fossi morto ne avresti coscienza?

AU:    No.

Z:    Come dovrebbe essere, come hai immaginato il dopo la morte?

AU:    In molti modi, sì molti.

Z:    Pensavi che ci saresti arrivato col tuo nome, con la coscienza di te stesso, mantenendo il tuo io di quando eri in vita?

AU:    No, questo no.

Z:    È così infatti.

AU:    Dunque, non sono nemmeno morto?

Z:    Nemmeno.

AU:    Cos’è questo luogo dove siamo allora?

Z:    Questa è la tua prima domanda?

AU:    Sì

Z:    Ti ricordo che potrai porne soltanto un’altra.

AU:    Lo so. Dove siamo?

Z:    Nell’EOOS.

AU:    Non è possibile, l’Eternal Organic Operating System è un mito, una leggenda.

Z:    Non è un mito. Sei qui. O meglio, sei all’ingresso. Alla fine di questo colloquio verrai immesso definitivamente. Ricordi la terra? 

AU:    Sì.

Z:    Ti manca?

AU:    Sì

Z:    Vuoi tornare?

AU:    (tace)

Z:    Perché non rispondi?

AU:    (tace)

Z:    È comprensibile che la cosa ti turbi. 

AU:    Significa che sono un algoritmo ora?

Z:    Sei una stringa, qualcosa di più complesso, la digitalizzazione su hardware sintetico è stata superata da hardware organico/minerali, questo ha permesso di tradurre l’umanità in stringhe disciolte nelle materie naturali del pianeta. Tutto ciò che era umano è stato scomposto in stringhe e innestato in modo fluido nella materia organica che è l’hardware dell’EOOS. L’uomo in quanto animale non esiste più, la sua parte fisica è stata rimossa per permettere al pianeta e all’umanità stessa di sopravvivere. L’EOOS è l’unica possibilità per scongiurare la definitiva estinzione. Dalla tua rimozione e immissione nel GameArt sono passati 467 anni, il tempo necessario per completare EOOS.

    Alla fine di questa conversazione verrai definitivamente inserito nell’EOOS dove vivrai assieme a tutta l’umanità di tutti i tempi. 

AU:    (tace)

Z:    Poiché ti resta solo una domanda, cercherò di prevenirti rispondendo ad alcune che probabilmente vorresti porre.

    Nell’EOOS non sarai un’anima tra le anime, ma un uomo tra gli uomini pur senza il tuo corpo come lo hai conosciuto.

    Nell’EOOS il tuo corpo saranno le materie che costituiscono gli esseri viventi vegetali e animali, le conformazioni minerali e gassose del pianeta.

    Nell’EOOS perderai la coscienza di te stesso come ti conosci.

    Nell’EOOS il tempo non esiste essendo un sistema eterno.

    Nell’EOOS le divinità sono ancora materia di fede.

    Nell’EOOS le origini dell’universo e della vita sono ancora un mistero.

    Questa voce che ti informa è la voce di Z.

    Z non è un dio.

    Z non è un arcangelo.

    Z non è un’allucinazione.

    Z non è una macchina.

    Z è la guida ultima all’ingresso dell’EOOS.

Z:    Ora puoi porre la tua ultima domanda.

AU:    (tace)

Z:    Qual è la tua domanda?

AU:    Avrei voluto sapere la verità sulla natura dell’Arte.

Z:    Vuoi sapere cosa sia ARTE?

AU:    (tace)

Z:    Era il tuo demone?

AU:    Sì.

Z:    Va bene, mi appresto a rispondere.

AU:    No!

Z:    Hai cambiato idea? Non lo vuoi più sapere?

AU:    No, non voglio più.

Z:    Vuoi pormi un’altra domanda?

AU:    No.

Z:    Bene, allora clicca l’icona rossa!


[clic]


EOOS: Benvenuto nell’Amata Città di Zeus.